LaFabbrica ci consegna con “Barriere” un lavoro feroce e coerente, che si muove come un flusso ininterrotto di rabbia lucida e poesia urbana. Non è un disco facile, né vuole esserlo. È un’opera pensata per chi è stanco di sentirsi dire che va tutto bene, quando tutto invece cade a pezzi.
Il viaggio parte con Non mi aspettare, una canzone-urto che in meno di due minuti incarna l’essenza del disco: niente compromessi, solo tensione pura. Il brano successivo, Fuori, è un’analisi chirurgica della nostra incapacità di guardare oltre noi stessi. Le chitarre nervose, il basso pulsante e la batteria martellante costruiscono un ritmo che è quasi claustrofobico. Ma è con Kiev che il disco cambia pelle: la guerra irrompe nella narrazione, ma non con l’epica o la retorica, bensì con la voce rotta di un padre che ha solo paura.
L’ansia quotidiana torna con Nella tua testa, una canzone che pare non voler finire mai, incastrata in un loop fatto di riff e solitudine. La voce si fa spettro, il suono è metallo contro metallo. Come stai Matteo? è un attacco frontale all’ipocrisia: il brano meno musicale ma più urgente, capace di restare nella testa come un brutto pensiero.
Poi arriva Dopo tutto sono io, che cambia il ritmo ma non l’intenzione. È un addio che sa di inizio, una ballata senza retorica, tutta fatta di cicatrici e tentativi di restare fedeli a sé stessi. Regina, invece, è la scossa elettrica del disco: basso devastante, chitarre spesse, un testo che mette in crisi il bisogno di affidarsi agli altri per salvarsi. A fari spenti è una delle vette emotive del disco, una cavalcata cieca verso il nulla che fa male e bene insieme. Chiude tutto Intorno, un brano che abbraccia la fragilità e la restituisce come atto politico: contro la depressione, contro la narrazione tossica della felicità obbligatoria. Barriere è un disco che resta addosso. Per chi non ha paura di guardare il dolore negli occhi.







