Il fascino di Komorebi sta nella sua capacità di unire sonorità apparentemente opposte. L’Intro è un brano essenziale, costruito su pochi suoni, che ci accompagna nel cuore del progetto con discrezione. Komorebi accende una luce gentile, fatta di arpeggi e riverberi. È il brano più “aperto” dell’EP, quello che meglio incarna il concetto di luce che filtra tra le fronde. Il ritmo accelera bruscamente con Age of paranoia, dove Buonarroti si affida a una struttura drum and bass per restituire lo smarrimento e la sovrastimolazione del nostro presente. Il passaggio a Homesick è un sollievo malinconico: la chitarra echeggiante e i sintetizzatori vintage ci riportano a una dimensione più intima. Don’t worry…you’re dead! è forse il brano più stratificato: inizia come un requiem e si evolve in un paesaggio sonoro denso e tormentato. Infine What are you running from? chiude il disco con ironia ritmica e leggerezza apparente, ma anche con una domanda che rimane sospesa. Un lavoro maturo, capace di raccontare molto senza parole.
“Komorebi” sembra voler guidare l’ascoltatore dentro l’ombra. Perché questa direzione?
Perché nell’ombra ci si può perdere ma, se si riesce a intercettare quei rari spiragli di luce che filtrano, è possibile viverci senza soccombere. Ecco, forse è questa l’idea alla base di Komorebi, o almeno così mi piace pensare.
Qual è il rapporto tra oscurità e luce nei tuoi brani?
Direi che è un rapporto che sto cercando di armonizzare. Forse questo equilibrio non è stato ancora raggiunto perché l’oscurità mi piace parecchio e, al contempo, troppa luce abbaglia. Quando ho la percezione che l’atmosfera si stia incupendo troppo, provo a smorzare un po’, cercando di far virare la tristezza verso binari più malinconici o nostalgici. Per questo trovo particolarmente affascinante la metafora sottesa al “komorebi”.
Ti sei ispirato a qualche autore o artista in particolare durante la scrittura dell’EP?
Non credo di aver avuto particolari influenze artistiche o, quantomeno, se così fosse stato non lo ammetterei mai. Chiaramente sto scherzando! È inevitabile ispirarsi a qualche autore o artista; talvolta questa influenza non è manifesta ma indiretta e inconsapevole. Ciò che mi ispira a livello musicale è talmente vasto che ci metterei due giorni solo a citare gruppi o artisti, quindi per non fare torto a nessuno posso dirti che a suggestionarmi è stata la visione di Perfect days, un recente film di Wim Wenders ambientato a Tokio. Poi un viaggio in Giappone ha fatto il resto.
Quale traccia ti ha messo più alla prova dal punto di vista tecnico?
Probabilmente si tratta di Don’t worry…you’re dead! Non tanto per la complessità dell’arrangiamento né per l’esecuzione della parte di batteria, che è il mio strumento di provenienza, quanto per la parte di piano, con il quale non sono propriamente a mio agio. Per fortuna riverberi, eco e vari delay hanno aiutato a rendere il tutto più armonico. Spero che il risultato non infastidisca troppo i pianisti di professione.
Come immagini che l’ascoltatore ideale reagisca a un ascolto integrale dell’EP?
Non credo che all’ascolto di questo EP si possa reagire in maniera univoca. Anzi, spero che si presti a molteplici interpretazioni, anche lontane da quella che ho dato io. Certamente ci sono alcune sensazioni che prevalgono ma è altrettanto vero che la mancanza della voce tende a condizionare meno l’ascoltatore favorendo lo sforzo ermeneutico. L’unica cosa che mi ferirebbe davvero sarebbe quella di constatare di aver lasciato impassibile l’ascoltatore.







