
Danilo Ruggero è un cantautore che non si lascia imbrigliare dalle mode né dalla fretta del presente. La sua scrittura nasce dall’urgenza, dal bisogno di dare voce a ciò che spesso resta taciuto: fragilità, crepe, incertezze che diventano materia viva di canzoni. La sua musica non insegue la viralità, non cerca la perfezione levigata, ma abbraccia l’imperfezione come spazio autentico di incontro. Con lui la voce diventa corpo emotivo, e le melodie non sono semplici cornici ma frammenti di un mosaico che, pezzo dopo pezzo, restituisce un percorso umano prima ancora che artistico. Nella nostra conversazione con lui è emersa la sua scelta chiara: non fabbricare hit da consumo rapido, ma costruire ponti.
In un panorama musicale sempre più orientato al “singolo”, tu pubblichi un EP che rifiuta la linearità e non cerca l’hit. Una scelta estetica o anche politica?
Direi che sia entrambe le cose. Estetica perché riflette la mia natura, ovvero io non penso mai a una canzone come a un prodotto che debba funzionare da solo, ma come a un tassello con la sua narrativa ma dentro un percorso. Puzzle nasce proprio da questa idea, quindi non dall’ossessione della completezza, ma dall’accettazione dei pezzetti che cerco di rimettere insieme e che poi rispargo sul pavimento. Ma è anche una scelta politica perché, in un mondo che ci vuole costantemente performanti, veloci, allineati a un ritmo che non è umano, fermarsi a raccontare la propria fragilità diventa un atto di resistenza.
Viviamo in un contesto in cui sembra che la musica, come tutto il resto, debba brillare solo per immediatezza: un hook che resti in testa, un ritornello pronto per i social. Io credo invece che oggi sia profondamente politico scegliere di non inseguire quella logica e restare fedeli a un’urgenza più intima, più sincera. Parlare delle proprie incertezze, della paura, del non sentirsi pronti, significa andare contro una narrazione dominante che esalta soltanto forza, velocità e successo.
La vera rivoluzione è conservare la fragilità, ma non per compiacersi della propria debolezza, ma per riconoscerla e farne materia di dialogo. Ecco perché Puzzle non cerca un singolo da playlist, perché non vuole adattarsi a quel tempo accelerato, ma creare uno spazio diverso, in cui si possa respirare e ascoltarsi senza dover per forza essere “vincenti”.
Non rincorrere la canzone virale, non assecondare la fretta, non adattarsi al formato è, per me, una scelta politica, ma cosa nella via non lo è? Tutto è politica, alla fine.
Le due versioni di “Puzzle” raccontano due stati d’animo o due tempi diversi della stessa emozione?
La doppia versione di Puzzle nasce dal bisogno di restituire la complessità di un’emozione. Le due versioni convivono perché una (quella alternativa – che poi non è altro che la demo di Puzzle fatta in casa) riesce, secondo me, a raccontare il dissesto emotivo e tutta la mia fragilità nella fase compositiva. L’altra le contiene.
Una si contorce, l’altra respira. Entrambe, a modo loro, mi rappresentano. Non volevo scegliere tra completezza e vulnerabilità. Raccontano lo stesso dolore, lo stesso stato d’animo, ma da prospettive e tempi diversi ed entrambe, credo, fossero necessarie.

“Sapone” sembra evocare un’urgenza di pulizia, ma anche l’impossibilità di restare intatti quando si prova a comunicare qualcosa di profondo. Quanto è difficile, per te, mantenere fede a ciò che senti?
Mantenere fede a ciò che sento è l’unico modo che conosco per scrivere. Non è facile, perché la sincerità, quando è vera, spaventa, ti mette a nudo e non ti dà tempo di rivestirti. Motivo per cui abbiamo tutti molta difficoltà ad essere fedeli a noi stessi, ad essere sinceri fino in fondo nella vita reale. Sapone è proprio il tentativo di scrivere qualcosa che sfugge e che mi manda in frantumi. Nella versione live del brano, tra l’altro, c’è un verso che nella versione prodotta non esiste: “Io scrivo per appuntare quello che non voglio più ricordare” – che svela il mio modo di scrivere per quello che è. Ovvero un tentativo goffo ma necessario di trattenere ciò che fa male, senza doverlo rivivere continuamente. Comunicare ciò che sento significa, accettare di perderne dei pezzi per strada e che si può vivere anche ammettendo le proprie incoerenze, di non riuscire più a ritornare interi, intatti o che a pezzetti ci si può riconoscere lo stesso, che siamo sempre noi, al di là di tutto.
Se dovessi associare a ogni brano dell’EP un colore, quale palette verrebbe fuori?
Rivelerò questa cosa: la scelta dei colori di ogni brano è stata lasciata a Giada Rizzo, amica illustratrice, che con cura ha realizzato tutte le cover dei singoli. La palette scelta e associata ad ogni brano non è casuale ed è studiata e poi approvata dal sottoscritto. Per ogni brano c’è il color carta da disegno, quindi bianco sporco/grigiastro come le pagine di un diario. Sapone ha poi elementi verde acqua e altre tonalità del verde, Elefanti celeste e viola, Dagli alberi un mix tra azzurro, blu elettrico e verde smeraldo mentre Puzzle ha tutti i colori (proprio come le spennellate di Giada sull’illustrazione), perché Puzzle è come se fosse un insieme di frammenti diversi che convivono nello stesso spazio senza annullarsi. È la prova che le contraddizioni possono coesistere, che ogni colore, anche il più distante, trova un suo posto nella tavolozza imperfetta di ciò che siamo. Invito quindi ad osservare le copertine dei brani perché al loro interno vi è l’interpretazione di un’altra artista, quindi un punto di vista inedita da cui poter osservare, ascoltare ed entrare all’interno dell’EP.
La voce, nel tuo caso, sembra più una materia emotiva che uno strumento tecnico. Come vivi il confronto con l’imperfezione, soprattutto nel cantare dal vivo?
Ho imparato malamente a usare la voce per restituire quelle sfumature che con le parole scritte non riuscivo a restituire. Ogni incertezza nel timbro, ogni esitazione ha un senso anche quando non sono volute o ricercate perché in qualche modo sono influenzate dall’emotività di quell’istante performativo. L’imperfezione è ormai una compagna di viaggio che faccio comodamente sedere accanto e ho smesso da tempo di ricercare la performance perfetta perché m’interessa di più la verità, anche se incrinata, storta, ruvida, spigolosa. Quando canto dal vivo, quello che cerco non è il controllo ma la connessione e a volte una voce rotta, credo dica più di mille versi intonati.

Ultimamente si parla molto di “musica terapeutica”. Tu cosa pensi del confine tra arte e autoanalisi? Ti spaventa l’idea di essere “letto” troppo?
Fare musica, scrivere canzoni è un atto terapeutico per me. Lo è sempre stato, ma me ne sono reso conto solo negli ultimi anni, quando avevo smesso di farlo. Avevo smesso di scrivere il mio diario, le mie canzoni, di comporre musica e sono stato malissimo. Chiarisco che io non guarisco quando scrivo o compongo perché per farlo, quando stai veramente male, bisognerebbe, a mio modo di vedere, affiancare la musicoterapia o la scrittura terapeutica ad un percorso psicologico vero e proprio.
Io però è come se, provando a mettere insieme queste due arti (musica e scrittura) cercassi di mettere a verbale la mia parte emotiva e facessi “auto-analisi”. Mi leggo e rileggo milioni di volte ed è come se utilizzassi la scrittura come strumento per esplorare ed affrontare i miei problemi emotivi, le mie crepe, le mie incongruenze e, grazie a quest’ultima, avessi preso poi maggiore consapevolezza di me stesso, maggior capacità gestionale dei miei sentimenti o capacità esplorative della mia coscienza e delle mie emozioni. È un lavoro concentrato molto sul proprio “Io”, però se poi qualcuno si ritrova in quelle parole che ho tanto ricercato e le trova curative, tanto meglio. L’intento però non è mai quello di guarire nessuno, tantomeno sé stessi.
A volte mi spaventa essere “letto” troppo, perché alcune cose che scrivo mettono davvero molto in luce le mie fragilità. Ho imparato però ad accettare che, una volta messe in una canzone, non sono più solo mie ed è il patto implicito della condivisione: io ti offro una crepa, tu ci vedi la tua e
se anche una sola persona si riconosce in quello che scrivo, allora tutta la paura di essere “letto”, di diventare totalmente vulnerabile e magari “frainteso”, inizia ad avere un senso ed ha senso continuare a scrivere, comporre, suonare e cantare.






