“San Rocco” ha un respiro collettivo ma una voce molto intima. Come sei riuscito a tenere insieme questi due livelli?
In generale, cerco di intendere la mia vita, quello che scrivo, le miei azioni partendo da me, dalla mia intimità, ma sentendomi sempre parte di una comunità. Mi rifaccio a uno dei concetti espressi in maniera illuminante da Seneca secondo il quale: “Siamo tutti membra di un grande corpo perché la Natura ci ha generato come parenti e ha fatto di noi degli essere sociali”. Il bene comune è anche bene del singolo, questa è una cosa che tendiamo spesso a dimenticare, purtroppo, e ciò è terreno fertile per gli egoismi e la solitudine cancerogena. In “San Rocco” ho cercato di ascoltare il mio respiro, le mie suggestioni durante quella processione, e nello stesso tempo non dimenticavo di far parte di un corteo di altre persone che mi erano intorno. Partendo da questo ho tradotto poi in musica quella notte.
C’è un ritorno al rito, al lento, al simbolico. Una scelta controcorrente, in un’epoca che spinge sull’acceleratore?
I nostri spazi vitali si stanno ormai sempre più restringendo alla grandezza di uno smartphone, la nostra zona di confort si trova sui social dove tutto dura giusto il tempo di morire. Le mode, i trend, le tendenze, li trovo tutti modi per non vivere. Abbiamo bisogno di non dover dimostrare niente a nessuno, e invece siamo indotti a dover apparire spesso ciò che non siamo.
La lentezza di cui mi hai chiesto, in realtà la ritengo normalità, la “lentezza” non dovrebbe essere una caratteristica ma una consuetudine con cui si affronta la vita, perché solo facendo attenzione alla vita questa riesce a donarti il suo potenziale. Siamo distratti e confusi, non solo nelle azioni ma anche nei sentimenti. A parer mio perché si è accaniti fruitori della superficie delle cose e non del loro reale contenuto.
La scrittura sembra venire da dentro, non da una strategia. C’è stato un momento preciso in cui hai capito che “San Rocco” era un pezzo speciale?
“San Rocco” fa parte di un album in cui tutte le canzoni sono state scritte senza strategia, senza rispettare canoni e tempistiche. Nello scrivere “San Rocco” ho messo dentro ciò che sentivo necessario e basta, il superfluo o lo schema “strofa-ritornello-strofa” non è emerso perché non ne ho sentito il bisogno. Certo, “San Rocco” è speciale per questa sua dimensione rituale, per ciò che racconta e per come lo fa. Sono felice che sia arrivata cosi forte al pubblico.
Nel brano si sente forte la presenza della tua terra. Quanto la Calabria plasma il tuo modo di scrivere?
In una sola parola: totalmente.
Non mi nascondo dietro un dito, la Calabria è così radicata in me a volte da crearmi anche dei limiti.
Sono stato fortunato ad aver trascorso un’infanzia e un’adolescenza piena di profumi, sapori e consistenza legate a questa terra.
E’ una terra ricca e povera, una terra piena di contraddizioni, e questa trovo sia la sua forza e anche il suo tallone d’Achille.
Ho lavorato per tanti anni come autore per gli altri, mettendo in secondo piano tutto il bagaglio emotivo che la mia terra mi ha donato. In questa mia nuova fase artistica, ho deciso invece di mettere al centro proprio le mie radici, mostrare agli altri ciò che ho dentro e di riflesso finalmente riconoscermi nelle canzoni che scrivo.
Hai lavorato anche con grandi nomi della musica italiana. Cosa cambia quando firmi un brano che porta solo il tuo nome?
Una delle prime cose che ho imparato facendo l’autore, è stata quella di “lasciare andare i brani”. Cioè tu puoi scrivere tutte le canzoni che vuoi, ma alla fine se quelle canzoni raggiungono un pubblico, diventano della gente. Certo, puoi nutrire il tuo ego dandogli in pasto la soddisfazione di aver scritto tali parole o tale musica, ma cerco di allontanarmi sempre dal pericolo di cadere in quella buca di autoreferenzialità.
Ora sto firmando da solo questi miei brani perché sto cogliendo dalla mia intimità, dalle mie reminiscenze, in cui nessuno può essere li con me.
“Storie di uomini e di bestie” è un titolo denso, quasi letterario. Quanto c’è di romanzo in questo album?
Beh molto, già la parola storie ne è un forte richiamo.
Mi piace moltissimo leggere, lo faccio tutti i giorni, cosa che invece non faccio con la musica. Non ascolto sempre musica.
Questo è per me un passaggio molto importante, che mi ha portato a scrivere “Storie di uomini e di bestie”. La necessità di raccontare ancor prima di cantare, cioè preoccuparmi di avere prima delle storie e poi della loro forma.
Il messaggio, il contenuto, voglio che sia lo scheletro portante delle mie canzoni, poi i suoni le melodie, le atmosfere si plasmano su questo scheletro.
Pensando a chi ascolta oggi per la prima volta “San Rocco”: cosa ti auguri che si porti dietro?
Mi auguro che oltre a delle suggestioni, che possono essere gradevoli o meno, quello non mi preoccupa perché le emozioni stranianti e perturbanti sono fondamentali, vorrei che si ponesse delle domande.
Perché un pezzo così? Mi sta raccontando una processione? In quale borgo si trova? Domande del genere, a primo acchito facili, ma che possono risvegliarne delle altre e attuare una sorta di interazione con il proprio pensiero e con il mondo esterno. Un’interazione attiva e non passiva come quella che subiamo ormai costantemente.