C’è una musica che non grida, ma resta. Che ti attraversa senza fare rumore, come un sogno che si insinua tra i pensieri. Con Satelliti, Giulia Museo esplora questo spazio rarefatto, dove la perdita si fa poesia e la voce diventa sussurro. In questa intervista, Giulia ci ha raccontato com’è nata questa ballata sospesa tra cielo e ricordi.
- Satelliti è un brano nato da un sogno. Com’è stato tradurre quell’esperienza onirica in una canzone? Tradurre un sogno in musica è sempre un processo affascinante e delicato. Satelliti è nata proprio da un’esperienza onirica molto intensa, quasi come se fosse un messaggio arrivato da un’altra dimensione. Mettere in parole e suoni un sogno significa cercare di afferrare qualcosa di sfuggente, trasformare immagini e sensazioni indefinite in qualcosa di concreto. La sfida è stata proprio questa: restituire l’atmosfera surreale e poetica del sogno senza perderne la forza emotiva. La musica, in questo senso, è stata la chiave: ha permesso di raccontare quel mondo sospeso con sincerità e libertà.
- La produzione del brano è minimalista ma molto evocativa. Come avete lavorato tu e Luigi Tarquini su questo equilibrio? Io e Luigi Tarquini abbiamo lavorato fin da subito con l’idea di lasciare spazio al respiro del brano. Volevamo che ogni suono avesse un senso, che ogni pausa parlasse tanto quanto le parole. La produzione minimalista è stata una scelta consapevole: togliere piuttosto che aggiungere, per far emergere l’essenza del sogno da cui Satelliti è nata. Luigi ha una grande sensibilità nel trovare suoni che non invadono, ma che accompagnano. L’obiettivo era far sentire chi ascolta come se stesse fluttuando, proprio come in un sogno.
- Il tema della perdita è centrale, ma affrontato con delicatezza. Quanto c’è di autobiografico nel testo? C’è sicuramente una componente autobiografica molto forte, anche se filtrata attraverso la lente del sogno e della metafora. La perdita, in Satelliti, non è raccontata in modo diretto o drammatico, ma come una presenza silenziosa, come qualcosa che continua a orbitare intorno a noi proprio come fanno i satelliti. È una riflessione su ciò che resta dopo che qualcuno o qualcosa se ne va, su quel vuoto che però continua a dialogare con la nostra interiorità. Scrivere il testo è stato un modo per dare voce a emozioni che spesso non trovano spazio nel quotidiano. La delicatezza è nata dal desiderio di non forzare il dolore, ma di accoglierlo, di osservarlo con rispetto. In questo senso, sì, c’è molto di personale, ma credo anche che quella sensazione appartenga a tanti. E forse è proprio lì che la canzone trova la sua forza più grande.
- Hai una voce che sembra sussurrare più che gridare. È una scelta stilistica o ti viene naturale? È un po’ entrambe le cose. Mi viene naturale cantare in modo intimo, come se stessi parlando a qualcuno molto vicino. Non ho mai sentito il bisogno di alzare la voce per farmi ascoltare anzi, credo che a volte un sussurro possa arrivare più in profondità di un grido. Col tempo ho capito che quella delicatezza è parte del mio modo di esprimermi, e ho deciso di farne una scelta stilistica consapevole. È come se la voce volesse accompagnare l’ascoltatore, non travolgerlo. In Satelliti, in particolare, quel tono morbido e quasi sussurrato era fondamentale per mantenere l’atmosfera sospesa del brano. È una voce che non cerca di imporsi, ma di entrare in punta di piedi.
- Cresci con De André e Dalla, ma il tuo stile è molto tuo. Quanto ti influenzano ancora quei riferimenti? De André e Dalla sono stati fondamentali per me, non solo dal punto di vista musicale ma anche umano. Sono cresciuta ascoltando le loro parole, imparando quanto possa essere potente una canzone quando riesce a raccontare la complessità della vita con poesia e verità. Quei riferimenti restano dentro, come una radice profonda che continua a nutrire anche quando i rami prendono direzioni nuove. Oggi cerco un linguaggio mio, più vicino alla mia sensibilità e al mio tempo, ma non mi separo mai davvero da ciò che mi ha formato. La lezione che mi porto dietro è il rispetto per la parola, la cura nel dire le cose in modo autentico. Anche se il suono e lo stile sono diversi, quel desiderio di raccontare l’essere umano nella sua fragilità e nella sua bellezza è qualcosa che sento ancora vicinissimo a loro.
- Ci sono sonorità o strumenti che ti piacerebbe esplorare nel tuo primo EP? Sì, mi piacerebbe sperimentare suoni nuovi ma mantenere l’intimità che c’è in Satelliti. Vorrei usare strumenti acustici in modo creativo, aggiungere qualche tocco elettronico leggero e creare atmosfere che facciano sentire chi ascolta dentro un piccolo mondo emotivo, sospeso e personale.
- La malinconia nelle tue canzoni si trasforma spesso in qualcosa di bello. È anche così nella tua vita? Sì, spesso succede anche nella mia vita. La malinconia per me non è qualcosa da evitare, ma un’emozione che può portare bellezza e consapevolezza. A volte è proprio nei momenti più delicati che nascono le cose più vere. Scrivere e cantare mi aiuta a trasformare quel sentimento in qualcosa di luminoso.
- Hai già pensato a come porterai Satelliti dal vivo? Immagini qualcosa di più acustico o orchestrale? Per Satelliti dal vivo immagino qualcosa di intimo, più acustico che orchestrale. Mi piacerebbe ricreare quell’atmosfera sospesa anche sul palco, con pochi strumenti ma scelti con cura magari chitarra, pianoforte e qualche elemento elettronico leggero. L’idea è far sentire il pubblico vicino, quasi dentro il brano.
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