I ragazzi di 60 anni tra sogno e realtà

Leo Tenneriello ci racconta, con un inno poetico, la generazione dei sessantenni di oggi. Un profondo viaggio tra fragilità e forza, speranze e nostalgia, con immagini intense che parlano a ogni età. Una canzone che invita a riflettere sul tempo e a credere nel futuro.

Ciao, Leo. Da dove nasce l’ispirazione per il brano “Noi ragazzi di 60 anni”?

Nasce da una domenica pomeriggio che si è infilata dentro come un ago. La casa silenziosa, il cuore rumoroso. Mancavano le mie figlie, mancava qualcosa di più profondo, forse il senso stesso del tempo che passa. Mi sono ritrovato a metà strada tra due età: da un lato, il ragazzino che ancora si ostina a esserci, con le sue smanie e la sua testardaggine; dall’altro, il padre, con il suo bisogno viscerale di sentirsi ancora un punto fermo.

E poi c’è la mia generazione, quella cresciuta con il mito del futuro radioso e che oggi guarda i figli negli occhi e si accorge di avergli lasciato più incertezze che speranze. Il brano è nato lì, tra il rimpianto e la voglia di dire: siamo stati giovani anche noi, e forse non abbiamo capito niente.

Vorresti spiegare meglio uno dei temi trattati nel brano, magari, quello che ti sta più a cuore?

Quello del legame. Noi passiamo la vita attaccati a un cordone ombelicale. Prima quello della madre, poi quello dei figli. Cambia il verso, ma non il bisogno. Non siamo mai davvero indipendenti, solo che ce ne accorgiamo tardi, quando un giorno ci ritroviamo a guardare il telefono aspettando un messaggio che non arriva.

E poi c’è il voto, nella canzone. Un gesto quasi automatico, come chi si alza la mattina e si guarda allo specchio per vedere se è ancora lui. Votiamo con una speranza disperata e romantica, come se quel segno sulla scheda potesse ancora spostare qualcosa, mettere a posto i cocci di un futuro che sembra sfuggirci di mano. Lo facciamo per inerzia, per illuderci che possiamo ancora cambiare le cose, per lavarci la coscienza verso i nostri figli, per convincerci che siamo ancora parte di qualcosa. È un rito che ha perso la sua sacralità, ma che in fondo compiamo lo stesso, perché smettere vorrebbe dire arrendersi del tutto. Forse è solo un’illusione, un riflesso condizionato. O forse è l’ultima forma di resistenza che ci resta.

Cosa ti ha spinto ad intraprendere un percorso musicale?

La necessità di raccontare. Scrivere e cantare per me sono due modi diversi di dire la stessa cosa. Quando le parole non bastano, arriva la musica. È sempre stato così: un’esigenza, un istinto. Fin da ragazzo ho sentito il bisogno di mettere in canzone quello che non riuscivo a dire altrimenti.

La musica è il mio modo di stare in equilibrio, tra malinconia e ironia, tra quello che ero e quello che ancora mi ostino a essere. È la mia confessione, il mio pretesto, il mio specchio.

C’è qualche consiglio che vorresti dare ai giovani? E ai tuoi coetanei?

Ai giovani non darei consigli, ma direi solo di guardare bene i loro genitori. Non come eroi, non come giganti, ma come uomini e donne che stanno ancora cercando di capire come si fa a stare al mondo. Siamo fragili come loro, a volte persino di più. Ma una cosa la so: un padre non deve fare l’amico dei figli. Deve esserci, deve stare saldo anche quando tutto trema, deve essere una roccia anche quando si sente sabbia.

Ai miei coetanei direi di smetterla di inseguire la giovinezza come se fosse un autobus che abbiamo perso. L’età non è una punizione, è un accumulo di vita. Non serve far finta di avere vent’anni, serve avere ancora qualcosa da aspettare. Perché finché aspettiamo qualcosa, siamo vivi. E se siamo vivi, possiamo ancora sbagliare, possiamo ancora. Possiamo ancora amare.

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