“Mastro Simone”: la denuncia sociale di Alberto Giovinazzo

In questa intervista, Alberto Giovinazzo ci guida dietro le quinte di “Mastro Simone”, il suo nuovo singolo che racconta una realtà spesso invisibile ma drammaticamente presente: lo sfruttamento dei braccianti agricoli. Partendo dalle sue radici lucane e dalle esperienze che lo hanno segnato, Alberto esplora il difficile tema del lavoro nei campi, dando voce a una figura complessa come quella del caporale. Con un sound che richiama le origini del blues, “Mastro Simone” si fa testimonianza di un mondo dimenticato. Ci racconta come questa canzone nasce dal cuore della sua storia personale e da una volontà di raccontare il lato oscuro della società, ponendo uno sguardo attento e crudo sulla condizione dei lavoratori nei campi.

Alberto, “Mastro Simone” è un brano che affronta una realtà tanto presente quanto invisibile. Come è nata l’idea di questa canzone?

«Lavorare su “Mastro Simone” è stata un’ardua sfida. Le mie origini lucane mi hanno sempre portato ad avere un’affezione particolare verso il tema dei braccianti e del lavoro nero nei campi, forse perché provengo da una famiglia storicamente contadina quindi a volte ho avuto come la sensazione di dipingere un ritratto della mia stessa persona, di ciò che sono. Sono cresciuto ascoltando le notizie che venivano dal metapontino, le mille difficoltà che gli agricoltori incontravano nelle proprie giornate. Sono mille le storie dalle quali ho tratto ispirazione per la stesura di “Mastro Simone”, dalle lotte del sindacalista Aboubakar Soumahoro alla terribile storia di Satnam Singh, morto nell’agro pontino a causa di un terribile incidente, caricato su un pulmino dai caporali e scaricato davanti casa sua invece di chiamare i soccorsi.

Il protagonista del brano è un caporale. Come hai scelto di raccontare questa figura?

“Mastro Simone” è la storia di un caporale: un uomo duro e complesso, intrappolato nel paradosso di essere al contempo capo e schiavo della filiera agricola. Prima che l’alba illumini i campi, Mastro Simone seleziona le braccia più forti, destinate a lavorare fino al tramonto in condizioni spesso ignote.

“Mastro Simone” è una sorta di “documentario sonoro”. Come hai lavorato sul sound per amplificare il messaggio del brano?

Ripercorrere la strada delle origini del blues, nato dai canti emozionanti degli afroamericani nei campi di cotone nell’800, è stato per me un riferimento storico prezioso dal quale ho tratto ispirazione per il vestito sonoro di “Mastro Simone”.

“Mastro Simone” anticipa l’uscita di “Humus”. Qual è il concept dietro questo album?

L’Humus è l’unico elemento in natura che riesce a sintetizzare due fasi totalizzanti delle nostre vite: la vita e la morte. Tutti i personaggi dell’album si contrappongono tra questo dualismo all’interno del ciclo della propria vita e delle proprie coscienze, proprio come l’humus che sfruttando gli organismi in stato di deterioramento contribuisce alla formazione di nuova linfa.

Il videoclip di “Mastro Simone” è altrettanto potente. Puoi raccontarci la sua realizzazione?

L’assenza dei braccianti nel video, volutamente lasciati senza volto nella copertina grafica del singolo, amplifica la loro condizione di anonimato e invisibilità. Sono ombre che popolano il mondo del lavoro agricolo, ridotte a numeri e strumenti di produzione, private di identità e voce. Il furgone di Mastro Simone diventa una gabbia mobile, uno spazio soffocante che attraversa strade deserte, prima dell’alba e dopo il tramonto. Le atmosfere cupe e i dettagli frammentati costruiscono un racconto visivo che non offre redenzione né giustificazioni, colpendo lo spettatore con la durezza della realtà rappresentata.

Attraverso il video si evoca un profondo senso di disagio e impotenza, invitando a riflettere sul prezzo umano nascosto dietro ogni raccolto. “Mastro Simone” non è solo una denuncia dello sfruttamento, ma un monito su ciò che spesso scegliamo di ignorare.

Qual è il messaggio che speri arrivi al pubblico con “Mastro Simone” e “Humus”?

Il messaggio che spero arrivi a chi ascolta la mia musica è permettere a tutti coloro che sono segnati dalla fatica del duro lavoro nei campi – senza alcun tipo di garanzia economica, fisica e sociale – di non sentirsi abbandonati, di non sentirsi avviliti sotto il caldo asfissiante delle serre, anche solo per il tempo di una canzone. La condizione sociale che viviamo oggi non deve essere un peso sotto il quale dobbiamo piegarci bensì una spinta verso il cambiamento.