L’universo musicale di Cronico è un viaggio in cui passato e presente si fondono, dando vita a brani capaci di toccare corde profonde. Con “Battisti” — il suo nuovo singolo distribuito da Sony Music — l’artista compie un passo decisivo nel proprio percorso creativo, intrecciando cantautorato, pop ed elettronica in un racconto sonoro che oscilla tra nostalgia, rinascita e ricerca di sé. In questa intervista, Cronico ci accompagna dietro le quinte del processo di scrittura, rivelandoci come ha saputo trasformare un frammento del proprio vissuto in una canzone che punta dritta al cuore di chi ascolta.

“Battisti” è un titolo che evoca subito un forte richiamo al passato della musica italiana. Cosa ti ha spinto a scegliere proprio questo nome per il tuo nuovo singolo?
Ho scelto il titolo “Battisti” perché, pur essendo un richiamo diretto a uno dei giganti della musica italiana, non volevo fare un semplice omaggio a Lucio Battisti, quanto piuttosto utilizzare il suo nome come simbolo di un certo tipo di emozione che attraversa generazioni. La musica di Battisti è stata capace di parlare di temi universali come l’amore, la perdita, la ricerca di sé, sempre con una profondità che resta attuale, anche a distanza di anni. Quindi, più che un riferimento biografico, il nome “Battisti” rappresenta un’idea di musica che sfida il tempo, che riesce a essere intima ma anche universale, emozionale ma anche concreta.
Il mio brano, purtroppo o per fortuna, nasce da un vissuto che parla di nostalgia, di momenti che non torneranno, ma anche di quella speranza che si nasconde dietro ogni fine. E penso che questo sia un legame forte con l’universo musicale di Battisti, che ha sempre saputo esprimere con delicatezza ed efficacia quella tensione tra passato e presente, tra il “chi eravamo” e il “chi vogliamo diventare”.
Inoltre, “Battisti” è un nome che evoca un immaginario collettivo, soprattutto in Italia, dove la sua musica è davvero un linguaggio condiviso. Per me, usare quel nome nel titolo è stato anche un modo di connettermi a una tradizione musicale, ma con uno spirito nuovo, più contemporaneo e personale. Volevo che il mio brano fosse un punto di contatto tra il passato e il presente, un po’ come la musica di Battisti lo è stata per tante generazioni, e continuasse a parlare a chi, come me, si sente in costante evoluzione, ma con un piede ben radicato in quella memoria.
In fondo, “Battisti” è anche una riflessione su come, volente o nolente, siamo tutti influenzati dal passato, anche nelle scelte artistiche. Ma questo non significa restare fermi: vuol dire trasformare quella memoria in qualcosa che può ancora evolvere e parlare al presente.
Nel brano parli di perdita e smarrimento: come hai tradotto queste emozioni in sonorità e linee melodiche?
Nel brano, la perdita e lo smarrimento sono state tradotte in sonorità e melodie che accompagnano e intensificano il senso di fragilità ed incertezza che volevo trasmettere. Ho cercato di creare un’atmosfera che rispecchiasse proprio quel senso di sospensione, in cui ci si sente intrappolati tra il passato e il futuro, tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere.
A livello di sonorità, ho usato timbri più morbidi e spogli all’inizio, per dare l’idea di un vuoto, di un silenzio che si fa sentire prima di un cambiamento. Ad esempio, le sezioni di piano e le percussioni delicate creano un senso di intimità e di introspezione, quasi come se l’ascoltatore fosse immerso nei pensieri e nelle emozioni del protagonista. Il suono è spesso aperto e arioso, ma con delle interruzioni, come a sottolineare che non c’è una strada lineare, ma piuttosto una continua oscillazione tra speranza e rassegnazione.
Man mano che la canzone si sviluppa, però, ho voluto inserire delle evoluzioni ritmiche e melodiche che rappresentano quel tentativo di uscire dalla stagnazione emotiva. Quando il brano entra nel ritornello, le melodie si alzano, diventando un po’ più plectriche e sognanti, per dare spazio a quella piccola speranza che emerge, nonostante il dolore. È una sublimazione emotiva, che passa attraverso il contrasto: la semplicità e la malinconia del verso, che poi si trasforma in qualcosa di più potente e risolutivo nella parte finale, per rappresentare l’idea di accettazione e di rinnovamento, anche in mezzo al caos e alla confusione.
Un altro elemento che ho usato per evocare il senso di smarrimento è la distorsione e la risonanza, che fanno vibrare il brano come se fosse un’eco di qualcosa che non riusciamo a raggiungere completamente. Le linee melodiche sono volutamente non troppo nette in alcune parti, quasi come se la voce si perdesse nei suoi stessi pensieri, in un gioco di suspense emotiva che poi, alla fine, si lascia andare.
In sostanza, ho cercato di tradurre queste emozioni di perdita e smarrimento con un mix di suoni soffusi, ma anche momenti di esplosione melodica che offrissero al brano una sorta di via di uscita, di respiro. Perché, in fondo, anche nel momento di buio, c’è sempre una possibilità di ritrovare se stessi, seppur attraverso il caos.

Hai menzionato che “Battisti” non è solo una canzone, ma un frammento del tuo vissuto. Quanto è stato complesso trasformare un’esperienza così personale in un brano destinato a un pubblico ampio?
Trasformare un’esperienza personale in un brano destinato a un pubblico ampio è sempre una sfida, soprattutto quando si tratta di emozioni profonde come quelle di “Battisti”, che nascono da un momento di vulnerabilità e riflessione. Il processo è stato, senza dubbio, complesso, ma anche molto liberatorio. La difficoltà principale risiedeva nel trovare un equilibrio tra la mia esperienza intima e la capacità di far sì che il brano potesse essere riconosciuto e sentito da chiunque lo ascoltasse, indipendentemente dal proprio vissuto.
All’inizio, c’era la paura che alcune immagini o sensazioni potessero sembrare troppo specifiche, troppo legate alla mia storia personale, e quindi difficili da capire o sentire proprie per chi non avesse vissuto le stesse cose. Ma mi sono reso conto che proprio in quel rischio c’era la possibilità di trasformare il personale in universale. Ho cercato di tradurre il mio vissuto in emozioni più ampie, senza perderne l’autenticità, usando immagini e parole che potessero trasmettere un sentimento più grande, che chiunque avesse sperimentato una perdita o un cambiamento potesse riconoscere. Ad esempio, il tema della nostalgia e del tempo che passa sono sensazioni che toccano chiunque, anche se le circostanze sono diverse.
Una parte importante del processo è stata anche l’idea di non raccontare solo il dolore o la sofferenza, ma di bilanciarli con un senso di rinascita, di accettazione, anche quando sembra che tutto sia perduto. Questo contrasto, presente sia nel testo che nelle sonorità del brano, ha aiutato a rendere il messaggio più universale, poiché chi ascolta può riconoscersi non solo nel dolore, ma anche nella speranza di un cambiamento o di una nuova fase della vita.
A livello musicale, poi, ho lavorato molto sull’aspetto emotivo della produzione. Ho cercato di trasmettere le emozioni senza fronzoli, con sonorità che fossero tanto semplici quanto evocative. Volevo che la musica fosse un amplificatore delle sensazioni che raccontavo nel testo, ma senza mai appesantirle. Penso che questo abbia permesso di mantenere l’intimità del brano, mentre al contempo creava uno spazio sonoro in cui l’ascoltatore potesse proiettarsi.
Quindi sì, è stato complesso, ma è anche stato un esercizio di autocoscienza e di apertura verso gli altri. Alla fine, credo che le esperienze personali, se raccontate con onestà e senza paura di mostrarsi vulnerabili, riescano a toccare le corde giuste nelle persone, perché in qualche modo tutti noi ci confrontiamo con le stesse emozioni, anche se in forme diverse. È stato un processo di trasformazione, in cui ho imparato a vedere la mia esperienza non solo come una storia individuale, ma come qualcosa che potesse essere parte di un racconto collettivo, capace di parlare a molti.
In un momento così carico di emozioni, dove trovi la forza e l’ispirazione per continuare a scrivere e suonare, anche quando la vita ti mette alla prova?
La forza e l’ispirazione per continuare a scrivere e suonare, anche nei momenti in cui la vita ti mette alla prova, vengono da un processo che è tanto personale quanto universale. La musica, per me, è sempre stata una via di fuga, ma anche un strumento di comprensione. Quando attraversi momenti difficili, scrivere e suonare diventano un modo per mettere ordine nei pensieri e nelle emozioni, per cercare di dare un senso a ciò che a volte sembra caotico e senza risposta.
La musica è un po’ come un rifugio, ma allo stesso tempo è anche una forza che ti spinge ad andare avanti. Quando ti trovi in difficoltà, spesso la musica ti permette di esplorare emozioni che non sapevi di avere, ti aiuta a entrare in contatto con una parte di te che, a parole, magari non riusciresti a esprimere. È un processo di auto-curamento, quasi come se ogni canzone fosse una piccola terapia che mi permette di guarire pezzo dopo pezzo. Quando scrivo, in qualche modo, do una forma a quel dolore, lo trasformo in qualcosa che posso guardare da una distanza, e questa distanza mi aiuta a comprenderlo meglio.
Oltre a questo, c’è anche una componente legata al desiderio di comunicare. Spesso, quando ci si sente soli o sopraffatti, la musica diventa un ponte verso gli altri. Sapere che ciò che stai vivendo può toccare qualcuno, che qualcun altro può riconoscersi nelle tue parole, è incredibilmente potente. A volte, è proprio nella condivisione delle proprie fragilità che si trova una forza comune che ti spinge a non mollare. È come se scrivere per gli altri fosse anche un modo per scrivere per me stesso, per rimanere ancorato alla bellezza della vita, nonostante le difficoltà.
Anche nei momenti più difficili, la musica ti offre sempre una via di espressione. Non c’è mai un momento in cui senti che la musica ti abbandona, anche quando la vita ti sembra sfuggire di mano. Continuare a suonare, a scrivere, è un po’ come continuare a respirare: una necessità, un riflesso che ti permette di non perdere il contatto con te stesso e con il mondo. E anche quando le parole sembrano mancare, le note riescono a trovare una via.
Il testo suggerisce l’idea di un percorso di rinascita che parte dal dolore. In che modo le parole sono diventate veicolo di speranza per chi vive un periodo buio?
Il percorso di rinascita che emerge nel brano è nato proprio dalla necessità di trovare una via di uscita dal dolore, ma anche dal desiderio di trasmettere quella sensazione di speranza che, anche nei momenti più bui, non ci abbandona mai completamente. Le parole, in questo caso, sono diventate un vero e proprio strumento di comunicazione emotiva, capaci di raccontare la difficoltà di affrontare il dolore, ma anche la possibilità di guardare oltre, di immaginare un futuro che, pur se incerto, è sempre aperto alla trasformazione.
La speranza nel brano non è un concetto astratto, ma qualcosa che si costruisce passo dopo passo, anche nelle circostanze più difficili. Ho cercato di tradurre questa sensazione in un linguaggio che non fosse semplicemente consolatorio, ma che parlasse in modo diretto a chi si trova a vivere un momento di smarrimento. Le parole si alternano tra il dolore della perdita e la consapevolezza che anche il dolore può essere una via per crescere e trasformarsi. Non c’è mai un momento in cui il brano vuole negare il dolore, ma piuttosto invita a confrontarsi con esso, ad accoglierlo per poi andare oltre.
Ad esempio, nella parte in cui dico “nulla è per sempre ma solo i ricordi che mi hai lasciato in tasca”, cerco di far emergere l’idea che, sebbene il passato non possa essere cambiato, i ricordi e le esperienze ci accompagnano e ci forniscono una forza per affrontare ciò che viene. Non sono solo tracce di un passato doloroso, ma elementi di continuità, di legami che resistono nel tempo. Questo passaggio vuole essere un invito a vedere oltre il dolore immediato, a riconoscere che anche ciò che sembra finito ha il potere di trasformarsi in qualcosa di positivo.
Le parole, quindi, non sono solo un mezzo per raccontare una storia personale, ma per costruire un ponte verso chi ascolta. Mi sono concentrato sul fatto che, anche nei momenti più difficili, c’è sempre una scelta, una possibilità di rinascita, una possibilità di ricominciare, pur non avendo tutte le risposte. Quella piccola luce, quella sensazione che “anche se non so dove vado, continuo a camminare”, è quella che spero possa arrivare all’ascoltatore come una sorta di ancora di salvezza.
In questo modo, il testo diventa non solo una riflessione sul dolore, ma anche un messaggio di resilienza. Spero che chi vive un periodo buio possa riconoscere in queste parole una sorta di compagno di viaggio che, pur senza promesse di facili soluzioni, invita a non arrendersi, ma a cercare in ogni passo la forza di andare avanti. È un invito a non chiudersi mai, ma a continuare a cercare la luce, anche quando sembra difficile trovarla.
La tua musica viene spesso descritta come un intreccio tra cantautorato, pop ed elettronica. Come hai gestito l’equilibrio tra questi generi nel nuovo singolo?
Nel nuovo singolo, l’intreccio tra cantautorato, pop ed elettronica è stato il risultato di una ricerca molto personale, che nasce dall’esigenza di raccontare una storia emotiva ma, allo stesso tempo, di renderla accessibile e contemporanea. La sfida è stata proprio quella di trovare un equilibrio tra queste sonorità, facendo sì che ognuna di esse contribuisse a rafforzare il messaggio senza sopraffare l’altro elemento.
Il cantautorato per me è fondamentale: è la base su cui si costruisce il racconto, il cuore pulsante del brano. Le parole sono al centro e la loro forza espressiva è l’elemento che guida tutto il brano. Quindi, anche nel nuovo singolo, ho voluto mantenere una scrittura che fosse diretta e intima, con testi che permettessero all’ascoltatore di entrare subito in sintonia con le emozioni di chi canta.
Tuttavia, per non cadere in una dimensione troppo statica o introspettiva, ho voluto espandere il brano con l’uso del pop, in particolare con melodie orecchiabili che potessero rendere la canzone più accessibile e di impatto. Il pop, in questo caso, è stato un veicolo per rendere la parte emotiva più universale, facendola arrivare in modo diretto, senza perdere la profondità del messaggio.
L’aspetto che forse è più interessante in questo singolo è l’introduzione dell’elettronica, che è stata utilizzata in modo da non sovrastare il testo, ma da arricchirlo. Ho scelto sonorità elettroniche per aumentare la tensione emotiva, per dare più spessore a determinati momenti e per enfatizzare quella sensazione di perdita e di sospensione che caratterizza il brano. Le linee sintetiche e le atmosfere più eteree contribuiscono a creare un ambiente in cui il testo trova spazio per evolversi, ma senza mai distogliere l’attenzione dalla sua forza narrativa. Piuttosto che un contrasto, quindi, l’elettronica diventa una sorta di amplificatore emotivo.
L’equilibrio tra questi generi è stato possibile proprio grazie all’attenzione alla struttura del brano. Ho cercato di non forzare l’introduzione di un elemento all’interno di un altro, ma di farli interagire in modo naturale, in modo che ogni parte avesse il suo spazio senza coprire le altre. L’idea era di creare un suono che fosse ricco e complesso, ma che, allo stesso tempo, mantenesse una certa leggerezza e fluidità, in modo che l’ascoltatore potesse sentirsi accompagnato lungo il brano senza mai sentirsi sopraffatto.
“Battisti” segna l’inizio di una “nuova, grande avventura” per te: quali aspettative hai, sapendo che il singolo sarà distribuito da Sony Music?
L’ingresso in Sony Music con il singolo “Battisti” segna senza dubbio un capitolo importante e, come dici, una nuova, grande avventura. Da una parte, c’è la consapevolezza che questa è una grande opportunità per far crescere la mia musica a un livello più ampio, ma dall’altra, so che le aspettative che ci sono dietro sono anche una sfida, perché questo passo implica un impegno maggiore e una responsabilità diversa.
Le aspettative che ho riguardo a questo lancio sono, da un lato, di riuscire a raggiungere più persone e portare la mia musica fuori dai confini più ristretti. Il fatto che “Battisti” venga distribuito da un’etichetta come Sony Music mi permette di avere una visibilità più grande, di entrare in contatto con nuovi ascoltatori, non solo in Italia, ma anche all’estero. Questo mi stimola molto, perché credo che la musica debba essere condivisa e che ogni brano meriti di essere ascoltato da più persone possibile. In un mondo musicale sempre più competitivo, avere un partner come Sony mi offre l’opportunità di espandere il mio pubblico e di entrare in contatto con nuovi scenari musicali.
Allo stesso tempo, so che questa visibilità comporta anche una grande responsabilità. Le aspettative sono alte, e bisogna essere pronti a lavorare sodo per non perdere di vista il proprio percorso artistico, pur cercando di evolversi e rispondere alle nuove sfide del mercato. Quello che mi interessa, però, è non far sì che queste aspettative mi limitino o mi facciano perdere il contatto con quello che sento più autentico nel mio percorso. Voglio che ogni singolo che uscirà sia un passo in più verso una crescita artistica che sia sempre fedele a me stesso, ma che al contempo sappia parlare al pubblico.
In che misura questo progetto ti ha dato occasione di riflettere e maturare come artista rispetto alle tue uscite precedenti?
Questo progetto è stato senza dubbio un’opportunità di riflessione profonda e di maturazione artistica rispetto alle uscite precedenti. Ogni nuovo brano è sempre un passo verso una comprensione più profonda di chi sono come artista e di come desidero raccontare la mia musica, e “Battisti” ha rappresentato una fase particolarmente significativa in questo percorso di crescita.
Rispetto ai lavori precedenti, questo singolo mi ha dato la possibilità di esplorare nuove dimensioni emotive e sonore. Nelle uscite passate, magari c’era una ricerca di uno stile o di una sonorità che definisse in maniera più immediata la mia identità musicale. In “Battisti”, invece, mi sono sentito più libero di mescolare e sperimentare, di giocare con le influenze che ho accumulato negli anni, come il cantautorato, il pop e l’elettronica, senza paura di fare scelte più audaci e non convenzionali.
Uno degli aspetti che mi ha spinto a riflettere maggiormente è stato il processo di scrittura: come dare più spazio al lato introspettivo, ma allo stesso tempo renderlo universale. La parte testuale di “Battisti” è stata una vera e propria sfida, perché mi sono reso conto che a volte, nel cercare di raccontare una storia personale, c’è il rischio di rimanere troppo chiusi e di non riuscire a comunicare con chi ascolta. Quindi, questa volta, ho cercato di dare una forma che fosse più fluida, più aperta al lettore, mantenendo però il mio spunto personale. È stato un esercizio di equilibrio tra il mio vissuto e il bisogno di coinvolgere il pubblico in una riflessione condivisa.
Musicalmente, mi sono avvicinato al progetto con una maggiore consapevolezza di ciò che voglio esprimere attraverso le sonorità. L’uso dell’elettronica, ad esempio, è stato un tentativo di arricchire il brano senza mai prevaricare il messaggio emotivo, ma cercando di dare dinamicità e profondità al pezzo. Questo processo mi ha aiutato a maturare nel capire come le sonorità possano entrare in dialogo con il testo, senza che una copra l’altra. Ho imparato a non avere paura di sperimentare e di uscire dalle comfort zone a cui ero abituato, senza però perdere mai di vista quello che mi interessa realmente: la verità emotiva che sta dietro a ogni canzone.
A livello di produzione, inoltre, ho avuto modo di lavorare a stretto contatto con una squadra che mi ha spinto a guardare oltre il mio solito approccio, aiutandomi a riflettere su come il brano potesse essere più sostenibile e aperto a nuovi orizzonti. Le collaborazioni sono state una parte fondamentale di questo percorso: ho imparato a mettere da parte l’idea di fare tutto da solo e a condividere il processo creativo con chi ha una visione diversa dalla mia, ma che mi aiuta a spingere il progetto in direzioni che forse non avrei mai esplorato da solo.