ASPETTANDO IL DISCO: SVISCERANDO LE SFACCETTATURE PIÙ INTIME DI BOETTI IN “RAGAZZO MIO”

Boetti racconta l’umanità nella sua imperfezione nel suo secondo album, “Romanzo porno”, disponibile dal 24 novembre per Manita Dischi e .Belva . Il progetto, partendo dal vissuto personale dell’artista, silenzioso spettatore delle storie delle persone che lo circondano, mette in musica le colpe e le conseguenti emozioni che queste suscitano in modo trasparente e fragile.

Lo scorso 10 novembre è invece uscito il singolo anticipatorio “Ragazzo mio”, e per l’occasione abbiamo fatto qualche domanda a Damiano. Si chiuderà infatti con questo brano il viaggio tra le emozioni e i dubbi amletici di Boetti con una canzone dedicata ad un amico fraterno, che ha condiviso con lui palco e studio di registrazione per poi mollare tutto. Fragilità personali, problemi d’insonnia, quella voce che sussurra all’orecchio dicendoti che il gioco è finito. Succede che un sogno giunga alla fine e questo porta ad una sofferenza non solo personale, ma condivisa da chi suonava al suo fianco. Boetti, tra questi, si rende conto che non si è mai lasciato andare alla sofferenza per questo abbandono, e per questo, sul finale, decide di esprimerla con “Ragazzo mio”. Qui l’intervista completa.

Abbiamo ascoltato il tuo nuovo singolo “Ragazzo mio”. Nel brano parli del momento in cui un musicista come te decide di lasciare il proprio sogno all’interno del cassetto. Cosa ti ha ispirato a scrivere questi versi?

La fine di un percorso artistico è solo una nota a margine autobiografica da cui scaturisce una riflessione più generale sulla fine delle cose o comunque la loro trasformazione. Potrei applicare la stessa lente d’ingrandimento sulla fine di una relazione (i rapporti artistici hanno molto in comune con l’amore) o di un’amicizia. Il punto è che, oggi nel 2023, chi come me è nato agli inizi degli anni ‘90 inizia a scontrarsi con gli spigoli della vita adulta: siamo così iper occupati a rincorrere sempre qualcosa, a pagare affitti, mutui, fare tre lavori per raggiungere una soglia economica dignitosa, che non ci accorgiamo più quando qualcuno ha bisogno di noi. Ognuno coltiva se stesso e gli stimoli, le possibilità sono infinite, tanto che si finisce per crescere e progredire in direzioni divergenti.

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I tuoi testi sono pieni di metafore e immagini significative, se potessi scegliere solo due frasi di “Ragazzo mio” che rappresentino il fulcro dell’intero brano quali sceglieresti e perché?

“Se il sangue non vende, tiriamo su feste. Avevo gambe peste, ma il ghiaccio era il tuo”. Vuol dire che se anche non siamo più disposti a sacrificarci insieme, troveremo un altro modo di essere uniti. Chiunque mi abbia seguito in questa strada si è esposto a pericoli importanti. Mettere soldi (o comunque non guadagnarne), nervi e fatica dentro una macchina che divora tutto è a volte disumano, doloroso. In questo fuoco mi ci butto sempre a capofitto, come se masochisticamente ricercassi la situazione che mi fa tornare a casa pieno di lividi. La fortuna e il privilegio sta nell’aver trovato sempre persone pronte a prendersi cura di me e guarirmi dalle botte prese.

“Non è mai abbastanza averne abbastanza”. Hai mai conosciuto anche tu quel sentimento di arrendevolezza, il peso della realtà che come pietra schiaccia le piume dei tuoi sogni?

Ho smesso di pensare alla musica come un sogno, è piuttosto un’urgenza che sgorga da me incontrollabile. Però le condizioni per coltivare questo mestiere, non inteso in quanto occupazione redditizia ma in quanto manualità artigianale, si inaspriscono con il peggiorare del mondo che ci circonda. La pandemia e le successive guerre e inflazioni hanno abbassato le disponibilità economiche dei locali, dei discografici, dei musicisti etc., molti dei quali hanno cessato l’attività. Il mondo del lavoro è sempre più oppressivo, tanto che oggi lavorare vuol dire giurare fedeltà eterna a un’azienda. Non è più contemplato il fatto che un dipendente possa avere progetti di vita paralleli. Questo porta a un bivio: o rinunciare o essere pronti a dare la vita per un gioco in cui non ci sono vincitori. Una vocazione simile al martirio.

Abbiamo visto sul tuo profilo instagram il reel di presentazione del brano, che significato hanno le immagini del passato che hai scelto di inserire nel video?

Con il senno di poi mi sarebbe piaciuto avere il tempo di recuperare filmati d’epoca riguardanti persone della mia famiglia, videocassette di matrimoni, compleanni, feste in generale. Il senso sta comunque nel significato complessivo dell’album: l’oscenità del privato che viene reso pubblico. Non siamo più abituati oggi alla messa in scena della nostra intimità, quando lo si fa in realtà si finge, si mente, perché siamo convinti che non sia speciale. Ma è proprio la non-specialità a rendere speciali certe cose. In quel pentolone di pasta che la signora con il grembiule maneggia, in quelle dita bambine sul pianoforte da canzoni post pranzo di Natale, è racchiusa la storia delle nostre imperfezioni private, ciò che ci rende vivi.

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Il tuo precedente singolo “Colpa tua”, anch’esso anticipatore del tuo prossimo album, viaggia su musicalità più elettroniche ed esplosive rispetto a “Ragazzo mio”. Cosa dobbiamo aspettarci dal disco? Più sperimentazione o più ballad?

Direi un po’ di tutto, anche se “Colpa tua” è effettivamente un azzardo (ben riuscito, valutandolo a posteriori) che mi sono permesso di fare solo una volta. Di questo ringrazio il mio produttore, Andrea Pachetti, che mi ha spinto a stravolgere l’impianto originario del brano. Volevo fare un disco con cui rivendicare il mio essere cantautore, cosa che invece negli ultimi anni ho sempre rinnegato forse per timore o timidezza. Questi brani sono per me un ritorno all’origine, anche se sottotraccia si avverte la parentesi rock da cui provengo e che per il solo fatto di averla attraversata mi ha comunque lasciato dentro qualcosa di importante. Alla fine sono il risultato delle mie esperienze, va bene così.

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LUCIA CANTALUPPI
LUCIA CANTALUPPI